PROCESSO AL COLESTEROLO ‘ SE NON E’ IL KILLER E’ UN SUO COMPLICE’

Colesterolo no, colesterolo sì. Non bisogna ingerirlo perché uccide, colpendo al cuore. Oppure è innocuo, o, addirittura, fa bene, e allora via libera ai cibi grassi? Da cinque anni il messaggio è stato: il colesterolo fa venire l’ infarto, se lo riducete vivrete più a lungo. Ora invece si scopre che non è un nemico. Qual è la verità? “Purtroppo – osserva Attilio Maseri, direttore dell’ Istituto di Cardiologia dell’ Università Cattolica di Roma – la situazione è molto più complessa di quanto potrebbe apparire. Affermazioni come ‘ il colesterolo non è più un killer’ o magari fa bene semplificano troppo la questione. Non è esattamente questo l’ insegnamento che stiamo traendo dalle recenti ricerche. Stiamo scoprendo, che il colesterolo è solo uno dei ‘ complici’ , uno dei numerosi componenti della banda che uccide il cuore. Quindi il suo livello nel sangue non ha un potere ‘ predittivo’ dell’ infarto sufficientemente accurato. Bisogna indagare altri fattori di rischio e non solo con gli animali di laboratorio, ma direttamente nell’ uomo. Questo è il messaggio”. “Intorno al colesterolo ormai si è acceso un dibattito con toni a volte arroventati – conclude Maseri – Le affermazioni categoriche diventano degli estremismi che non rendono giustizia della complessità scientifica del problema”. E questo sta crescendo al punto da meritare una tavola rotonda. Si terrà a Modena il 30 ottobre e lì si confronteranno i nemici del colesterolo con coloro che lo vogliono riabilitare. Nel senso di liberarlo dal ruolo di unico assassino, cosa che, di fatto, impedisce di scoprire le gravi responsabilità di numerosi altri fattori, sottovalutate o completamente sconosciute. Che intanto continuano a colpire. Perché si è creato un tale conflitto? Perché lascia increduli la riabilitazione del colesterolo? E perché, quando è stato affermato – compiendo anche allora una semplificazione eccessiva – che il colesterolo è il killer del cuore, le persone si sono convinte al punto di stravolgere le loro abitudini alimentari e di imbottirsi di farmaci? Una risposta la da il dottor Marco Bobbio, della divisione cardiologica dell’ Università di Torino, in un suo recente studio sull’ argomento. “Innanzitutto – sostiene Bobbio – va rimarcato che molti critici si indignano più per i titoli che non per la lettura degli articoli, senza risalire alle fonti del dissidio. Detto questo, è indubbio che sulla questione del colesterolo l’ informazione abbia giocato un ruolo determinante”. Ma le fonti che l’ hanno alimentata, ovvero alcuni settori della ricerca medica, nel riferire i risultati delle indagini sono state parziali, dice in sintesi il suo saggio. “I meccanismi con cui – spiega Bobbio – sinora si è realizzata questa informazione indirizzata sono diversi. Il primo riguarda la ‘ spontanea’ selezione delle ricerche che danno i risultati a sostegno della tesi: diminuire il colesterolo nel sangue fa sempre bene”. E’ un fenomeno noto. Gli americani lo chiamano “The positive result bias”, errore da risultato positivo. Ovvero i dati che confermano la tesi si ricordano e si riferiscno più spesso. Quelli che, contraddicendola suggeriscono di rimetterla in discussione, si dimenticano. L’ esperto per primo può esserne vittima. “Il secondo meccanismo riguarda il metodo statistico con cui si calcola la riduzione relativa del rischio e che viene poi utilizzato per pubblicizzare la ricerca”. Ad esempio: dire “questa cura riduce il rischio d’ infarto del 34 per cento” è più convincente che affermare “questa cura ha ridotto gli eventi cardiaci di 1,4 casi ogni 100 casi trattati”. Eppure è la stessa ricerca presentata in modo diverso. Spesso ricordando di sfuggita gli effetti collaterali della cura. “Tutto questo va sottolineato – conclude Bobbio – non per negare il debole rapporto causale tra colesterolo e infarto ma solo per smorzare l’ entusiasmo di chi, in base a conoscenze ancora incomplete, ritenga necessario cambiare le abitudini di vita di una nazione. L’ obbiettivo dei medici deve essere quello di scoprire come migliorare la qualità e la durata della vita, non la prevenzione di per sé”.

Fonte: Repubblica — 18 ottobre 1991

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